Ancora oggi nei ristoranti e nelle case c’è spazio per questo piatto tanto antico quanto succulento e gustoso
Un tempo con i primi freddi autunnali e l’arrivo delle prime verdure si iniziavano a mettere in tavola zuppe e minestre, soprattutto nelle case contadine sparse lungo tutto lo stivale. Tanto che la storia gastronomica è piena di nomi di piatti che richiamano queste zuppe, con la particolarità che quella campana ha un nome veramente accattivante. L’elenco è lungo e prevede tante originali minestre: quella strappata, strascinata, a palle dorate, di erbe passate. O ancora: d’anguilla, al latte o d’orzo altoatesina. Nomi di piatti popolari che declinano la minestra, dalle Alpi a Mazara del Vallo, nei mille gusti della immensa tradizione gastronomica del bel Paese. Ma, maritata è un aggettivo unico. Interamente e intimamente nostrano. O meglio meridionale. Per esattezza esiste una minestra marià (maritata) anche in Piemonte; ma è a base di riso, spinaci e uova, quindi diversissima da quella campana, pugliese (con fave), calabrese e lucana. Tra queste, lo scettro di regina spetta a quella campana, più precisamente napoletana, come la chiamano e la descrivono i ricettari ed i dizionari di mezzo mondo. La minestra maritata nasce, dalle nostre parti, come piatto ricco. Buono solo per le tasche dei benestanti partenopei che si potevano permettere, nei giorni di festa, questa sostanziosa pietanza chiamata anche “pignatto grasso”. Poi arrivò la pasta, i maccheroni che fecero letteralmente impazzire nobili e plebei. Allora fu lentamente sostituita, nei pranzi speciali, da sontuosi timballi di pasta e ziti inebriati da pippiante ragù. Così la minestra maritata divenne per le classi meno agiate, soprattutto della provincia e delle zone di campagna, il sogno da realizzare in occasione del Natale, della Pasqua o qualche festa. Anche perché i campani, noti come “mangiafoglie”, di verdure e legumi ci vivevano quotidianamente. Verdure coltivate ed erbe spontanee (raramente accompagnate da fagioli o patate) erano la dieta giornaliera dei braccianti o dei contadini poveri. Far bollire queste con qualche pezzo di carne era il desiderio sospirato per un anno intero. Un matrimonio tra il mondo vegetale e quello animale atteso per mesi. Le verdure, da allora, sono rimaste le stesse, un gran misto di foglie reperito tra gli orti di casa e la vegetazione selvaggia: cicoria, bietole, torzelle, scarulelle (piccole scarole), borragine, verza e broccolone nero (detto menesta). La carne che si marita con esse, nella ricetta classica, prevede alcuni insaccati non facilmente reperibili che hanno origine poverissima, sono fatti con le parti meno nobili o con gli scarti della lavorazione del maiale: pezzentelle e annoglia. Poi c’è la carne di vitello, la gallina (in alcune versioni cappone ripieno) l’osso del prosciutto, altri pezzi del maiale (persino l’orecchio) ed infine un pezzo di caciocavallo ben stagionato. Insomma, tanto ben di Dio che dopo il perfetto assemblaggio e la complessa cottura diventa una meravigliosa, originale ed unica minestra.