BARONISSI- 7 GIUGNO- Oggi alle ore 18,30 è stata inaugurata la mostra personale di ANGELOMICHELE RISI dal titolo Opereduemilaventitre ma è stata anche l’occasione per presentare il volume monografico, edito da Gutenberg che ricostruisce l’esperienza artistica, dalla fine degli anni Sessanta all’attualità. Dopo diciotto anni, Risi torna con una sua personale ad esporre al Museo-FRaC di Baronissi: sulle pareti della galleria dei Frati diciassette grandi tele realizzate dall’artista nei primi mesi di quest’anno. Ha voluto rendere omaggio ad un luogo a lui particolarmente caro, “un luogo – è quanto ha affermato – significativo per le generazioni che hanno sostanzialmente dato senso e continuità alle scelte delle neoavanguardie e, contestualmente proiettato ad accogliere i giovani, le nuove esperienze”.
La mostra come la monografia, progettate e curate da Massimo Bignardi direttore del Fondo Regionale d’Arte Contemporanea Baronissi, è stata promossa dall’Amministrazione comunale di Baronissi, nell’ambito delle proposte di valorizzazione delle donazioni che, nel corso degli ultimi due anni, hanno contribuito ad accrescere il patrimonio di opere del Fondo ed è inserita nel programma 2023, progetto finanziato dalla Regione Campania – Decreto Dirigenziale. Iniziative per la “Promozione e valorizzazione dei musei e delle biblioteche”.
“Questa mostra – scrive Gianfranco Valiante, sindaco di Baronissi – allestita nella nostra istituzione museale, dedicata all’opera del maestro Angelomichele Risi, tra gli esponenti di punta di quella generazione apparsa sulla scena espositiva nazionale negli anni Settanta, è il frutto di un lavoro di ricerca e di ricostruzione che ha richiesto diverso tempo, in particolar modo la campagna fotografica di parte delle opere presenti nelle collezioni tedesche. Sono tele ove è la pittura a far la prima parte: non è figurativa ma riesce a trasferire il senso di attualità. La scelta di insistere in tale direzione, di aprire i Nostri spazi al dibattito culturale su quanto è accaduto e accade nel nostro territorio, è la misura di quanto l’Amministrazione comunale da me guidata, abbia accolto l’invito ed ha fatto sua la necessità di una conoscenza dell’eredità culturale, da affidare ai giovani. Siamo ben coscienti degli anni, dei giorni che viviamo, di quanto i processi di crescita culturale trovino difficoltà a farsi materia di una coscienza collettiva: dobbiamo, però, non abbassare la guardia, non costruire inutili muri o definire arbitrarie distanze”.
“Il pittore – rileva Massimo Bignardi nel saggio che apre il volume monografico – dipinge per un bisogno di liberazione, cioè di non lasciare spazio alla relazione che l’immaginario ha con il reale. Angelomichele Risi nel corso di questi primi mesi del 2023 ha realizzato una serie di grandi tele che difficilmente possiamo iscrivere sia nell’ambito generico di una declinazione astratto-concreta, come teorizzava Lionello Venturi a proposito degli artisti inscritti nel Gruppo degli Otto, nei primi anni Cinquanta, sia nell’astrazione di matrice geometrica, tantomeno nell’indeterminata astrazione lirica”.
L’esperienza messa in campo dall’artista, ha una sua più chiara connotazione se la si confronta con quelle opere, soprattutto assemblage, come vedremo in chiusura, ‘macchine pittoriche’ che vanno oltre i dettati neo dadaisti dell’estetica rauschenberghiana. Parlo di opere quali Calypos Melody, del 2016, oppure Senza titolo, esposta nel 2017 nella mostra con Nicola Salvatore e Silvio D’Antonio, al Palazzo del Broletto a Como.
Occorre andare oltre la rettangolare geometria della tela, del supporto per caricare la pittura di una molteplicità di suggestioni emotive, sia attraverso piani o schermi di colore saturo, sia accogliendo l’oggetto come pagina di un personale diario dell’immaginazione.
Nei dipinti realizzati di recente, una serie che abbiamo voluto definire “Opereduemilaventitre”, Risi si lascia guidare dal cuore, da lunghe ‘sincopi’ determinate da stati emotivi; nulla di mentale, nulla di concettuale, nulla di astratto tantomeno di rimando referenziale: è il cuore, non l’occhio, a guidare l’epifania che, davanti ai suoi e ai nostri occhi, ritrova una sua esistenza. Diversamente dagli artisti astratto-concreti nei quali, a detta di Venturi, coesisteva un rapporto che teneva insieme la visione naturalistica e la dimensione intimistica dell’artista, quest’ultima, comunque, sottoposta al controllo formale (estetizzante) della percezione; questi dipinti di Risi riescono a varcare la soglia chiusa della tela. All’interno dei piani organizzati da sfumature, da segni colorati che traducono una gestualità propria dell’espressionismo astratto, da schermi affiancati che non rispettano nessun contrasto e, soprattutto per la presenza di forme che suggeriscono una certa tridimensionalità e, quindi, un aggetto verso l’esterno. Potremmo affermare che “Risi ha operato e opera, sulla capacità espressiva del colore – sul massimo della sua potenza luminosa – e questo in assenza assoluta di una forma connotativa”.