L’inverno campano regala tanti succulenti piatti che arrivano dalla cucina povera e dalla tradizione popolare

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Fino agli anni cinquanta, del secolo scorso, la vita dura di chi lavorava nei campi era scandita dalla ricerca di piatti più sostanziosi e calorici. La carne era un miraggio che, nei casi più fortunati, si consumava una volta a settimana, il resto dei pasti era tutto ad appannaggio dei prodotti dell’orto che confermavano che i campani erano un popolo di “mangiafoglie”. Da questa realtà povera ed essenzialmente rurale sono nati tanti piatti che sono entrati a far parte della ricca, gustosa e famosa tradizione gastronomica della Campania. Un tempo la cucina casalinga seguiva il ritmo delle stagioni ed era legata alla scarsa disponibilità di prodotti ed è in questo contesto che sono nati piatti come le Scarole con fagioli e noci, la Minestra nera con pane duro, la pizza e’ raurinio o farinata con la saraga, cioè una sorta di polenta fritta fatta con il mais bianco e le sarde affumicate. Mentre per la carne bisognava aspettare l’uccisione del maiale che avveniva più o meno in questo periodo. Allora, con tutto quello che restava dalla lavorazione dei salumi e della carne più pregiata si preparavano piatti poveri come il sofritto, i fegatini nella rete con l’alloro o la minestra con il piede di maiale; mentre la minestra maritata di Natale si faceva con il brodo di gallina. Poi c’era la coda di vitello bollita, la lingua imbottita con patate al forno e o’ mascariello, cioè la guancia di manzo che si preparava con le patate o al sugo o con le sontuose genovesi. Sul versante del mare gli unici piatti che i contadini si potevano permettere erano le parti meno nobili dello stoccafisso e baccalà, le sarde affumicate e le anguille di fiume. Tutto un patrimonio ha creato una serie di piatti storici che sono entrati a pieno titolo nella tradizione campana.