Dal mito alla letteratura, dall’arte alla cucina, la storia dei cibi afrodisiaci che finiscono nei piatti per il giorno dedicato alla festa degli innamorati
“La fame è amica della verginità e nemica della lussuria” scriveva Sant’Ambrogio, Vescovo e dottore della Chiesa, agli albori del cattolicesimo. Come dire che cibo e virtù non sempre vanno d’accordo. Dalla notte dei tempi la rinuncia rappresenta un percorso obbligato per raggiungere la purezza. Questo significa, anche, che da sempre il cibo è considerato un prezioso alleato dei momenti più spensierati, un elemento essenziale della vita gaudente e festaiola. Soprattutto in relazione al sesso. Le liste di proscrizione emanate, in passato, dagli ordini monastici erano eloquenti in proposito. Erano ritenuti molto pericolosi per la “carne” tutti i cibi “caldi, ventosi e duri da digerire”. Banditi, quindi, dai conventi cibi elaborati e spezie. Di converso inizia a nascere un vero interesse, semiclandestino, per questi alimenti vietati. Siamo nel 1400 quando Caterina Sforza nel suo “Ricettario di bellezza” svela i segreti per i “debilitati e frigidi”. Mentre per il medico Baldassarre Pisanelli le ostriche, i granchi di fiume e le uova di tutti i pesci, aumentano l’appetito sessuale. Ma già da tempo in quest’elenco facevano bella mostra il cervello di molti animali, i testicoli di toro e di agnello, nonché la carne di piccione. Dobbiamo, però, arrivare alla fine del ‘600 per trovare una vera e propria cucina afrodisiaca con relativa letteratura gastronomica. Mentre l’inventario degli alimenti afrodisiaci si arricchisce di inediti cibi esotici, dai nidi di rondine alle pinne dei pescecani. I vini ed i piatti vengono impreziositi con ambra, muschio e zibetto, un’esasperata alchimia di aromi e sapori. Nel 1700, in Francia nasce la “cusine d’amour” ispirata alle favorite (oggi diremmo escort), dove i piatti sono dedicati alle famose e spregiudicate dame. Ricette come “costolette alla Mainteman” o “filetti di sogliola alla Pompadour” o ancora “suprema di sogliola alla d’Estrée” sono addirittura riprese da Brillant-Savarin, uno dei padri della cucina francese. Sulla stessa lunghezza d’onda si pone Omero Rampini che nel 1926 scrive il libro di ricette “La cucina dell’amore” ispirato alla stagione del tabarin. Così tra ostriche, crostacei, peperoncini, cacao, miele e spezie varie siamo arrivati ai giorni nostri dove la rigorosa ricerca scientifica ha dimostrato che non esistono cibi afrodisiaci, ma solo meccanismi mentali. Tutto è rimandato all’immaginario, a quella fantastica suggestione che parte dal mito di Afrodite. La leggendaria dea dell’amore e del desiderio, che nella cultura popolare è conosciuta attraverso opere d’arti come la Venere di Milo o la nascita di Venere di Botticelli, lega il proprio destino a quello del desiderio sessuale, tanto da dare il nome a questi cibi. Diventando, al tempo stesso, un equivoco simbolo di sessualità libertina. Ci ha pensato la psicologa canadese Ginette Paris, nel suo bel saggio “La rinascita di Afrodite”, a ridare dignità a questo mito. Dall’amore sessuale alla bellezza, dalla bellezza all’estasi. Una sequenza dove il piacere conserva tutta la sua importanza perché è la chiave di volta per aprire la porta di una nuova spiritualità. Insomma, la rinascita di Afrodite suona come la riscoperta di una sessualità affrancata dall’ombra del male e del peccato. Come lo è sempre la buona cucina. Anche quando viene descritta con nomi imbarazzanti come nel caso delle “Ricette immorali” dello scrittore spagnolo Vazquez Montalban, un misto di pietanze e sensualità che ravvivano il desiderio.Desiderio che per la scrittrice cilena Isabel Allende, nel finale del suo “Afrodita”, ha un solo inequivocabile mandante: “A questo punto mi sento in dovere di confessare che l’unico afrodisiaco davvero infallibile è l’amore”