A meno che non sia ritenuto un’opportunità di salvezza e quindi ci si sforza di integrarlo nel territorio, per le persone dei vari mestieri&professioni “pratici della vita”, andare a teatro è un’ “occasione”, come quando vai a una festa “bellissima!” (a teatro l’analogo dello spettatore è “interessantissimo!”) che il giorno dopo dorme già nei ricordi remoti, come il senso di ogni passatempo, anche serissimo. Semplicemente non si considera che nel e di Teatro la gente vive, soprattutto i giovani. Alessandro Paschitto, classe 1992, attore e drammaturgo, autore tra le altre cose di una lodata rilettura del “Troilo e Cressida” di Shakespeare, è un giovane che a Napoli di teatro respira.
1) Cosa registra oggi il sismografo dell’ispirazione teatrale a Napoli dopo Eduardo ed Enzo Moscato?
Dopo la generazione di cui fanno parte Moscato, Ruccello, Santanelli, nomi di rilievo sono considerati quelli di Ruggero Cappuccio, più recentemente Mimmo Borrelli. Chiaro che si parla di “circuiti ufficiali”, che sembrano avere un “tempo di emersione” molto prolungato. C’è tuttavia un panorama di altre proposte, parlo sia di drammaturghi di navigata esperienza (penso a Massimo Maraviglia, uno dei miei maestri), che giovanissimi, i quali bordeggiano tra i vari circuiti, emergendo di tanto in tanto, pesci volanti sul pelo dell’acqua. Il dialogo tra i circuiti di vecchia impostazione e quelli nuovi che vengono a costituirsi avviene solo nella misura in cui i primi si aprono ai secondi. Ma si tratta di porticine minuscole, spiragli di fronte ai quali si forma una calca.
2) Qual è la situazione dei giovani drammaturghi? Come si pone Napoli di fronte al Nuovo?
La situazione generale è quella, ritengo, di una crisi della committenza. Un giovane drammaturgo vive in un felice abbandono, poiché, non lavorando per altri che sé stesso, può scegliere da solo i paletti da imporre al proprio lavoro e i materiali su cui lavorare, oltre che i suoi interlocutori. Ma si tratta pur sempre di una condizione di abbandono che spesso si infrange sulla difficile sostenibilità economica dei lavori teatrali e del teatro come mestiere in genere. A ciascuno il compito di cercare la propria soluzione al problema ora che le vie canoniche sono ostruite o impongono vincoli incompatibili coi desideri di una nuova drammaturgia.
3) Secondo te, sono i pochi a Napoli i teatri eccellenti o prevalgono quelli mal gestiti e retrivi? E’ qualcosa che si può capire dai cartelloni?
Secondo me una differenza importante è quella tra cartelloni che si alimentano dell’affluenza di un pubblico effettivo, con il cui desiderio instaurano un dialogo, e quelli che sopravvivono perché ampiamente foraggiati. Un buon test sarebbe la sospensione dei finanziamenti per qualche tempo. Un teatro vivo, che coltiva un rapporto reale con un suo pubblico, è capace di sostenersi esclusivamente grazie ad esso, senza il doping statale o di chichessìa. La rete “Politeatro”, di cui il teatro Elicantropo, una delle tappe della mia formazione, fa parte, compie, a mio avviso, scelte interessanti e coraggiose. Eccellenti considero quegli spazi, non solo teatri con un cartellone, una stagione, che si dedicano alla formazione della persona-attore attraverso la prassi del teatro, non necessariamente volta a sfornare “addetti ai lavori”. Mi limito a citare il Laboratorio Teatrale Permanente del Teatro Elicantropo e l’Asylum Anteatro ai Vergini, che ho avuto modo di frequentare a lungo in prima persona.
4) Se un tempo andare a vedere Eduardo per i napoletani era naturale ed era un rito, cos’è oggi il teatro per loro e cos’è diventato “il napoletano”, come lingua e come personaggio, che oggi viene messo in scena?
Eduardo De Filippo (chiamarlo “Eduardo” mi è sempre sembrato una forma di confidenza eccessiva) aveva il suo pubblico. Non saprei identificare una figura specifica quando si parla de “il napoletano”. Questo animale non lo conosco, né saprei interrogarmi sui suoi gusti in materia di teatro, ammesso che ne abbia. Il napoletano come lingua, invece, è un continente a cui sono approdato di recente e in cui avverto agio. Bisogna tener presente però, che la lingua napoletana ha assunto le sembianze più diverse in passato ed è in evoluzione continua. C’è il napoletano di Basile, quello di Scarpetta, di De Filippo, appunto, i primi che mi sovvengono, i più noti, tutti abitati da propri tratti caratteristici. Ognuno ha fabbricato e fabbrica il proprio, declinando in proprio quella che è la comune matrice fonosimbolica, ritmica, semantica. Io mi regolo così: cerco di acquisire dallo studio delle diverse fonti quanto mi sembra più interessante e lo rimodello in sede di scrittura, tenendo presente come metro fondamentale la comunicabilità trasversale, adoperando ossia un registro variabile aulico e grezzo a un tempo, contaminando spesso prosa e verso. Ogni lavoro, poi, ha i suoi specifici dosaggi tutti da calibrare.
5) Secondo te, opere quali “I Bastardi di Pizzofalcone” e “Gomorra” riescono a rendere il carattere di Napoli?
Su questo punto sono impreparato, sono uno spettatore televisivo estremamente ramingo. Mi è capitato di cogliere qualche stralcio di “Gomorra”. Non mi sembrava, su due piedi, mal strutturata come operazione. Ma, ripeto, non l’ho veduta e non è nello specifico il mio campo.
6) Che posto occupa Napoli nella tua produzione?
“Mia produzione” mi sembra troppo. Diciamo “i lavori” a cui mi sono dedicato da quando ho cominciato a formarmi (tutto ancora in corso). Napoli (come agglomerato di pensiero, di figure) credo sia presente più come immagine latente, che ne affiori lo spirito qua e là in qualche scelta insolita che ho prediletto. Ma direttamente non me ne sono mai occupato.
7) Attualmente sei in tournée con “Le 95 tesi”, uno spettacolo ispirato a uno degli eventi che hanno fatto la Storia, lo scisma luterano. Che senso ha oggi portarlo sulla scena?
I due registi, ora anche attori dello spettacolo, Giuseppe Cerrone e Antonio Piccolo, hanno allestito questo lavoro, della cui drammaturgia sono anche autori, con l’occhio ben puntato verso la contemporaneità. La scelta di un linguaggio stilizzato, di dichiarare la dimensione performativa, fanno sì che gli elementi dello spettacolo possano venire astratti dal loro contesto storico specifico e farsi immagini di numerosi aspetti del mondo attuale, senza impegnarsi ad un esplicito riferimento ad essi. Metafore sportive, politiche, aziendali, esoteriche, mediatiche attraversano lo spettacolo. Il senso sta qui, credo io: rimodellare, pur fedelmente, una storia per consentirle di abbracciare significati nuovi. Lo spettacolo ha ottenuto buona risposta di pubblico a Verona e a Firenze, in attesa di visitare Torino, Milano e, forse, Trento.
8) A breve vi saranno altre date di “In vino itineras” …
Qualche dettaglio. Si tratta di un percorso “Paesaggistico – enologico – esoterico” dal sottotitolo “Erranze in cerca di altre sostanze”. È nato circa due anni or sono come un atto unico di strada patrocinato dal Comune di Napoli come iniziativa parallela ai percorsi di trekking urbano sulla Pedamentina a San Martino. Recentemente siamo approdati anche al Lago d’Averno e nel centro storico, al Teatrino di Perzechella. Parlo di me e Mario Autore, mio amico e compagno di lavoro a tutt’oggi. Lui ha curato la drammaturgia musicale, io quella testuale, la regia è di entrambi, che assieme lo portiamo anche in scena. Quanto al soggetto, si tratta di una scrittura che ingloba lo spettatore in un improbabile rito esoterico, celebrato da due sacerdoti, Osirìde e Osichiàgne, in nome del dio Baccallàh. Il vino diviene metafora delle palingenesi e trasmutazioni dell’anima dello spettatore. Ci avevano chiesto un semplice percorso informativo sui vini campani. Ripensato in chiave immaginativa, ora è uno spettacolo a sé stante, trasferibile in qualunque genere di spazio che, dopo due anni, continua ad avere spettatori. Prossimi appuntamenti a maggio, tra Pedamentina, Lago d’Averno e ancora il Teatrino di Perzechella in pieno centro storico di Napoli! (per le date prossime dello spettacolo è possibile consultare la pagina facebook, ndr.)