A trentatré anni dall’isolamento del virus dell’HIV, agente eziologico dell’AIDS, uno studio del Global Burden of Disease (GBD) fa il punto della situazione sui numeri di quella che rappresenta una delle più pericolose epidemie della storia della medicina.
Dall’epidemia mondiale ad una fase di stasi
Il primo caso di infezione da HIV documentato risale al 1959, ma è stato rilevato solo circa 30 anni dopo, quando in un campione di sangue proveniente da una donna congolese di Kinshasa è stata trovata la presenza di anticorpi contro il virus dell’HIV. Da allora, prima che il virus venisse isolato, nel 1983, passarono più di due decenni durante i quali le infezioni da HIV venivano erroneamente classificate insieme ad altre malattie infettive e gli affetti, non conoscendo le modalità di trasmissione della loro patologia, hanno potuto trasmettere il virus a catena, cosicché negli anni si è generata una vera e propria epidemia. Il picco dell’incidenza delle infezioni da HIV è stato registrato nel 1997, con 3,3 milioni di nuove infezioni, per poi decrescere gradualmente, in seguito alla messa a punto della HAART (terapia antiretrovirale altamente attiva), fino a 2,6 milioni per anno nel 2005 e questo dato si è mantenuto successivamente abbastanza stabile fino ad oggi. Dunque, da un decennio stiamo assistendo assistendo ad un plateau nella curva dei nuovi casi, che si concentrano soprattutto in aree sottosviluppate come l’Africa Subsahariana ed il Sud-est Asiatico, mentre in Europa è la Russia il paese con l’incidenza maggiore. Questi dati sono spiegabili se si considera che l’unico modo per evitare il diffondersi dell’infezione da HIV è prevenire il contagio e quindi, le più colpite, ad oggi, sono quelle nazioni in cui sussistono dei tabù riguardo all’educazione sessuale o alla malattia stessa e quelle zone dove non vi sono sufficienti risorse per campagne di sensibilizzazione e profilassi.
Italia e Campania: bene, ma non troppo
In Italia, nel 2014, sono state poste 6,1 diagnosi di infezione da HIV e 1.2 diagnosi di AIDS conclamata ogni 100 000 abitanti, con dei picchi, in entrambi i casi, in Lazio. La Campania è al di sotto delle cifre riscontrate a livello nazionale, contando ogni anno circa 3,4 persone affette da HIV e 1 malato di AIDS ogni 100 000 persone. Seppure tali cifre possano sembrare basse, vanno contestualizzate rispetto al numero totale di abitanti della regione – circa 6 milioni -. Nel 2011 ci sono state nella nostra regione 193 nuove diagnosi di infezione da HIV, il 75% riguardanti pazienti maschi, prevalentemente giovani adulti, sulla trentina e,
ad oggi, la sola AOU “Federico II” di Napoli segue più di 300 pazienti con HIV. Il problema più grave è costituito dal fatto che molti degli affetti si recano in ospedale solo quando la malattia è già in uno stadio avanzato. L’infezione da HIV però, dopo un primo periodo in cui si manifesta con sintomi simili a quelli di un’influenza o di una mononucleosi, può rimanere latente per molti anni, pur restando infettiva, dopodiché si passa alla fase di immunodeficienza vera e propria, che va sotto il nome di AIDS. Questo fenomeno ha due conseguenze principali: in primis, il paziente in stadio avanzato ha meno probabilità di sopravvivere rispetto ad una persona che ha avuto una diagnosi precoce e, in secondo luogo, questo può trasmettere inconsapevolmente la malattia ai propri partner sessuali. La stabilizzazione del numero di nuovi casi, in Campania, così come a livello nazionale e a livello globale, per lo meno nei paesi più sviluppati, è una conseguenza della flessione che ha subito l’incidenza della patologia dal 1997 in poi, quando l’epidemia di AIDS era all’ordine del giorno e spaventava molto di più. Secondo gli esperti, la popolazione sta abbassando la guardia, così come avviene per i vaccini, poiché lo spettro delle conseguenze nefaste di azioni non ponderate appare più lontano dalla quotidianità, di quanto non lo fosse negli anni ‘90. Di contro, la ricerca per la cura dell’AIDS continua a fare passi avanti, avendo usufruito negli ultimi quindici anni di parte dei 109.8 miliardi di dollari spesi dalla comunità mondiale per vincere questa grande battaglia. Difatti oggi è possibile tenere sotto controllo l’infezione da HIV nel paziente, diminuendo la carica virale grazie alla Terapia Anti-Retrovirale (ART) e ripristinando abbastanza bene il sistema immunitario del paziente, che diventa molto meno suscettibile alle sovrainfezioni da altri patogeni, le quali di norma sono la causa del decesso. In Italia il 67,08% delle persone con infezione da HIV ha accesso alla ART, contro una stima del 41% a livello globale ed il nostro è il terzo paese in Europa per numero di affetti trattati con la ART, dopo Svezia, Olanda e Svizzera.
Il paziente zero, un’invenzione da romanzo
Un’altra novità molto importante dal punto di vista epidemiologico sull’HIV giunge da uno studio pubblicato recentemente su Nature, ad opera di un team di biologi, epidemiologi, medici e storici, che ha ripercorso la storia dell’infezione. Dopo aver analizzato più di 2 000 campioni di siero di pazienti degli anni ’70, recuperando gli RNA virali tramite una innovativa tecnica, denominata RNA jackhammering, i ricercatori sono riusciti a scoprire il percorso – sia geografico che temporale – seguito dal virus una volta uscito dall’Africa, fino al suo arrivo negli USA. Secondo questa ricerca il virus sarebbe arrivato dai Caraibi a New York per la prima volta nel 1971 e da quel focolaio si sarebbe poi diffuso a San Francisco, Los Angeles ed in tutti gli USA, con una parallela diffusione anche in Europa, a causa delle migrazioni da un continente all’altro. Inoltre gli scienziati hanno definitivamente dissolto il mito del paziente zero, tale Gaetan Dugas, che per molti anni è stato additato dai media americani e dalla collettività come colui che aveva diffuso l’HIV negli usa, in una sorta di caccia all’untore di manzoniana memoria. Questo steward franco-canadese affetto dal virus dell’HIV fu messo in relazione, dagli investigatori dei Centers for Desease Control (CDC), con alcune decine di altri casi di sieropositività e fu denominato paziente O, laddove la “O” sta per outside of
California. Successivamente la lettera “O” divenne uno 0 e, sfruttando il fatto che Dugas aveva dichiarato di avere avuto svariate centinaia di rapporti sessuali quando ancora non sapeva di essere malato, la stampa lo presentò all’opinione pubblica come primo paziente americano HIV-positivo. In realtà gli studiosi, analizzando nuovamente il suo siero, hanno constatato che Dugas era affetto una un ceppo del virus uguale a quello presente in tanti altri connazionali dell’epoca e per nulla simile a quello ritrovato nei Caraibi, scagionandolo ancora una volta. In realtà, tutt’ora non si sa con precisione chi sia stato il primo caso nell’America del Nord, né di quale nazionalità fosse, ma ciò che è certo è che un solo individuo non ha potuto scatenare una delle peggiori epidemie della storia dell’umanità.