Teatro Mercadante, le ultime tre cartucce della stagione

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Il teatro Mercadante chiude il sipario per questa stagione 2015/2016 e sembra opportuno tracciare un bilancio degli ultimi spettacoli che hanno segnato la sua conclusione.

Il “Re Lear” di Shakespeare con Mariano Rigillo ha visto il pienone ogni sera, il principe della scena è ormai il mito di sé stesso, l’unico che possa permettersi di rendere la recitazione d’accademia ancora emozionante, ma Rigillo ha fatto il suo tempo e il resto della buona compagnìa risultava stantìa. Risultato: l’enorme potere evocativo della poesia del bardo inglese ne è uscita noiosa proprio per la recitazione. Spettacolo, questo, peraltro fortemente periglioso vista la totale mancanza di scene, causa le ristrettezze nei pagamenti dei dipendenti del teatro stabile di Catania (cui faceva capo la produzione): è la stessa misera situazione che imperversa anche al Teatro Stabile di Napoli, infatti è capitato spesso che gli attori prima di ogni spettacolo si siano premurati di testimoniare il loro sostegno ai lavoratori.

Sulle tavole Ridotto del Mercadante si è assistito a “Il giorno della laurea” di Giovanni Meola: un figlio invita i genitori a non partecipare alla sua seduta di laurea perché vuole farsi saltare in aria, lui appartenente a un’organizzazione di “martiri per la libertà”, coloro che denunciano la prigione della società odierna schiacciata dal peso di una quotidianità di scadenze, pagamenti, frustrazioni e lotte per la sopravvivenza per cui i valori sono carta straccia e anzi impostori, società di cui i due genitori- due irrealizzati e oberati dalle tasse- sono esempi. Tra conflitti vari, il marito e la moglie decideranno di lasciargli compiere il gesto, perché attirati dalla ricompensa promessa dall’organizzazione. Cristiana Dell’Anna ha dato prova di maestrìa nel mélange di commedia e tragedia proposto da questo testo. Enrico Ottaviano è risultato un po’ meccanico, più burocrate rispetto alla collega. In effetti il personaggio della madre è molto più problematico e ricco di quello del marito, con i richiami al senso viscerale dell’utero, all’irriconoscibilità del figlio quando su di lui erano state riposte tutte le speranze, dunque un cambio di umori che sostenere con la stessa verità ogni sera non è per niente facile.

Dulcis in fundo lo spasso de “Gli innamorati” di Goldoni, commedia in due atti nella produzione del teatro Franco Parenti di Milano. Si crede che nella commedia a vivere siano i “tipi”, ma Goldoni è il genio che ha rivoluzionato l’introspezione psicologica, per cui si passa dalla commedia dell’arte a personaggi che vivono di conflitti, in cui gli spettatori possono riconoscersi; con la sorniona dimensione del metateatro, che, facendo entrare e uscire gli attori dalla parte, ci dice: attenzione, ciò che vedete pur se finzione, non è meno vero.  E’ stato forse proprio la sponda problematica a mancare alla Eugenia di Marina Rocco, che però si è rivelata perfetta nel mostrare il lato bambinesco e ridicolo del sentimento della gelosìa, della puntigliosità per cui si monta su tutte le furie per un nonnulla. Il don Fulgenzio di Matteo De Blasio è efficace nel delineare gli aspetti di deformazione della realtà che si riportano nel temere di stare sempre sul punto di dire qualcosa di sbagliato e poi sbagliare davvero per mancanza di dialogo. Il coronamento di tale storpiatura della realtà è il personaggio del conte Fabrizio, spiantato che si crede una maestà con lo zoppo servo Succianespole: si rimarcano i perfetti tempi comici dei due interpreti.