Sono in via di conclusione le repliche di “Casa di Bambola” di Ibsen al Mercadante, della terna di spettacoli finora recensiti nell’ambito delle rassegna del Teatro Stabile, sicuramente il migliore. Ancora ai giorni nostri riscuote successo la scena finale in cui Nora Helmer, da perfetto angelo del focolaio diventa consapevole della sua essenza di donna, dei propri doveri verso sé stessa, al seguito dell’evento tragico, la scoperta che il marito non è disposto a sacrificare il proprio onore di direttore della banca per il valore della moglie e del suo gesto di avergli salvato la vita, pur se tramite una firma falsa.
Claudio di Palma sceglie di articolare la scena in due spazi, sul palcoscenico un piano inclinato e nel retroscena una struttura soprastante perfettamente squadrata, separata dal luogo dello svolgimento dei fatti da un paravento trasparente e un telo che sale e scende a seconda del bisogno. Il regista paragona la prima piattaforma a un “ring in cui le forme del ricatto (materiale e psicologico) istituito da Ibsen prendono senso”, noi vi abbiamo visto rappresentata la slavina dei vecchi valori e le storie dei singoli personaggi che crollano e -se percorsa al contrario- la risalita di Nora. Sul piano rialzato stanno le figure monolitiche dell’universo domestico di Nora: i figli, l’albero di Natale; il lampadario che cala inesorabilmente quando la Helmer lascia tutto ciò (non si sa se per abbandonarlo).
Gaia Aprea ha dato del personaggio un’interpretazione da donna dilaniata nel senso più palese del termine. Quasi alla schizofrenia, con repentini cambi di umore per la pressione di due identità che premono in lei da entrambe le parti: il Ruolo (quel che lei crede e le hanno fatto sempre credere di essere, una madre-moglie-figlia bambola) e l’Identità (ciò che scopre di essere, una Donna): scena esemplificativa è quella della tarantella, in cui dopo aver freneticamente convinto Torwald a ballare con lei per evitare di fargli leggere la lettera di Crogstadt, sviene, quasi come le donne nel Salento dopo il ballo della taranta. La condizione di Nora è simile alla posizione di un essere nel tempo così ben raccontata dall’Apologo di Kafka, in cui l’Uomo è un mero Egli compresso dalle potenze del passato che lo spingono verso il futuro e del futuro verso il passato: Egli desidera incessantemente uscire da questo campo di battaglia. Trova la libertà nello spazio del Presente che corrisponde alla messa in moto del Pensiero; l’Uomo riesce a fare così da auriga del tempo, è questa la presa di coscienza di Nora, che non è più vittima.
L’interpretazione di Claudio di Palma, oltreché regista anche attore nella parte di Torwald Helmer, rende un borghese di ogni tempo, sulla stessa linea della decisione ambientare il tutto in una modernità senza connotazioni temporali. Giacinto Palmarini nelle vesti del dimesso dottor Rank si è riconfermato elemento di punta per i ruoli secondari, un affidabilissimo comprimario, come aveva già dato prova di essere nel Pigmalione. Paolo Serra, invece, rispetto allo scorso spettacolo, ci è apparso in forma migliore nei panni di Crogstadt, che per essere l’antagonista deve avere la monotonìa dell’impiegato di banca e al cui fondo c’è il dramma di chi ha perduto la stima degli altri. Autilia Ranieri cambia personaggio ma non toni in ogni sua interpretazione, comunque una buona Kristine Linde.